Aspettare


Un’attesa: i sei minuti inaspettati nel tunnel della metropolitana. La panca è sgombra e un topo si lancia da un’estremità all’altra della piattaforma. Mutismo di rotaie, annunci ed esseri umani. La cupola di St Paul era uno sperone abbagliante nella notte, ma ora Londra è questa serpentina di viscere. Aspettare un treno che, insolitamente, ci metterà sei minuti ad arrivare. Compare un corpo pelato, che sbuffa alla lettura del ritardo. Ripassa il topo, adesso con più con calma. Non sto facendo niente. Per un volta, non sto facendo assolutamente niente. Non sto scendendo scale mobili, saltando da un autobus all’altro o fendendo la folla. È inusuale. Tutto, a Londra, è sempre puntuale e incastrato con precisione. Tabelle e programmi. Controllo su tutta la materia che si muove, sui minuti e sulle coincidenze, sulle scarpe in fila lungo le piattaforme e gli orologi digitali delle stazioni. A Londra non si aspetta mai nulla. Tutto arriva quando ci si aspetta che debba arrivare. Ma stanotte l’ingranaggio si è inceppato di sei minuti e il percorso pianificato del londinese medio deve sottostare al tunnel nudo, al conto alla rovescia, al tacco che batte la sua impazienza contro la linea gialla. E lo vedo: il pelato è un morto che cammina, pure stanotte che potrebbe respirare l’aria elettrica della fermata di St Paul e soffermarsi sulla differenza tra cielo e soffitto, pure in questi sei minuti in cui potrebbe sedersi e notare il topo correre e me guardarlo. Ma resta un cadavere capace di stare in piedi, materia pallida nel movimento a incastri. Mi vedi? Sono quella immobile, che con una tristezza feroce ti pensa, e pensa a come scrivere di te e del tuo sollievo morboso davanti ai vaghi fari gialli del treno. No, non mi vedi. E così il prezzo dell’efficienza diventa l’assenza di tempi morti: essenziali, per ricordarsi di essere vivi.

Caffè Nero and Happy Italy


Ricettività verso ogni esperienza, e il fatto che ho ventitré anni: ecco cosa penso, con forza, mentre scaldo il latte a centoquaranta fahrenheit e il cliente di turno picchietta l’indice sul bancone, probabilmente perché vorrebbe che il serving fosse ancora più rapido. Mi ci concentro, e la giornata passa, e trovo anche che cercare di preparare un cappuccino con una foam perfetta può essere piacevole, così come la gente, quando non è insopportabile. London calling: per ora, a fare la barista. Non è male: paga accettabile (seppur il minimo sindacabile), ritmi umani, inglese che si libera della ruggine, incontri interessanti, nuove capacità acquisite – fare circa trecentocinque cose diverse nello stesso momento e parlare più lingue negli stessi venti secondi. Da perfetta non bevitrice di caffè che sono, ho trovato lavoro proprio in una caffetteria, e non in una qualsiasi: si tratta di Caffè Nero, catena diffusissima in Gran Bretagna e acerrima nemica di Starbucks (per fortuna). Si spacciano per una compagnia italiana, anche se il proprietario è americano e la catena è inglese; hanno centinaia di store per tutto il Regno Unito, lavorano anche in Turchia, in Arabia Saudita, e prossimamente negli Stati Uniti e in Cina. Fatturano milioni di sterline: per forza, il loro è the best espresso of this side of Milan. Se sia vero, non so dirlo: non bevendo caffè, non ho testato il prodotto, anche se mi dicono che non è male. E io, da quasi un mese, faccio parte della schiera londinese dei loro baristi. Lavoro decisamente interessante: anziane donnine inglesi cortesi fino alla tenerezza (avresti voglia di portartele a casa, le donnine e il loro tè con latte), stronzi d’ufficio impazienti e scostanti, richieste folli – posso avere un cappuccino very wet, con skimmed latte, caffè decaffeinato, poca schiuma e cioccolato in cima? posso avere un cappuccino take away, ma nella tazzina dell’espresso? posso avere un double espresso ghiacciato? E tu devi accontentare tutto e tutti, perché, regola d’oro messa per iscritto da Caffè Nero, the customer is the king. Sempre. Comunque. Non solo: quando si serve, bisogna seguire tutti i meravigliosi six steps che rendono il servizio di Caffè Nero, secondo Caffè Nero, impeccabile. Si tratta dei famosi smile and greet, serve, sell, stamp and pay, sugar, say goodbye e thank you: e vanno osservati per davvero. In ogni caso, se essere un barista di Caffè Nero è faticoso, esserne un cliente non è meno impegnativo: quando si mette piede in uno store, bisogna prepararsi psicologicamente a venire bombardati di domande, il tutto all’improvviso e nel giro di trenta secondi. Se un cliente non è più che preciso, a ordinare, è un cliente morto: il barista – con gli occhi iniettati di sangue, perché per lui sono tutte cose scontate e ripetute fino alla nausea – attacca con which size? small, regoular or grande? e poi take away or drinking in?, have you go our loyality card?, would you like any chocolate or bluberry muffin as well?. Il cliente, spaesato e intimorito, cerca affannosamente di rispondere nel modo più veloce e coerente possibile. Ma non sempre è così facile: specie se si è un turista. Specie se si è italiani. Nella mia giornata tipo, incontro almeno quindici, venti italiani. Tutti in vacanza. Tutti milanesi, romani o fiorentini. Tutti in gruppi di sei, dieci persone, tutti convinti che Caffè Nero sia esattamente come un bar in Italia. E qui comincia la baraonda. Generalmente non parlano inglese. Gridano, è assodato, gridiamo per davvero. Spessissimo saltano la fila. Arrivati davanti al barista (divertito e anche un po’ spaventato, a meno che non sia italiano pure lui/lei), cercano di ordinare. A volte parlano solo e direttamente in italiano, il che, se il barista è polacco o ungherese, è un dramma. A volte si buttano in un inglese scandito sillaba per sillaba, accompagnato da gesti plateali (e il barista si sente come se stessero parlando a una persona ritardata). Bevono, ovviamente, solo espressi. Infine: sono convinti che, come in Italia, si possa consumare al banco, e quindi cominciano a sorseggiare il loro caffè davanti alla cassa, bloccando la fila e gettando scompiglio nelle sicurezze inglesi. Li adoro. Sono il sale delle mie giornate da Caffè Nero. Loro, e le vecchiette. Quando scoprono che sono italiana anch’io, parte il sollievo di massa – meno male, che culo, allora dai, fammelo buono il caffè!– e ci si racconta qualcosa – da quanto sei qua? come si mangia male! Berlusconi?come si arriva a St Paul?.  Se ne vanno facendo la stessa confusione di quando sono entrati.

Oggi un cliente, inglese, mi ha detto Continuo a vedere così tanti giovani italiani che lavorano qui a Londra, il tuo Paese dev’essere vuoto ormai! Ha usato la parola empty: vuoto. O svuotato? Non è la stessa cosa. Ma la mia amarezza è stata la stessa: Un po’ lo è. E il cappuccino, take away o drinking in?

Ho scaldato il latte. A Londra. Con addosso uno sconforto dolciastro, impotente.

PS: Il nuovo romanzo è finito. Si esce in settembre, ancora con la Giulio Perrone Editore. Titolo “Happy Italy”. In copertina ci sarà un pagliaccio di McDonald’s in procinto di suicidarsi. Se nell’attesa vorrete un cappuccino in una tazza da espresso, mi trovate a Londra, Caffè Nero in Paternoster Square, St Paul.

Londra e il pagliacco felice


Per chi non l’avesse ancora saputo, da quasi un mese mi sono londonizzata. Un clichè, sotto certi punti di vista: l’italiana che se ne fugge nella capitale inglese, in cerca di fortuna e risposte. L’ho fatto anch’io, per motivi non dissimili: per occupare questo spazio vuoto che mi separa dalla laurea (l’ultima, si spera) e dall’uscita del nuovo romanzo, per lavorare oltre il confine, per parlare inglese, per incontrare questo spasmodico ventre multiculturale che è Londra, e cavarci qualcosa. Che cosa, esattamente, lo saprò tra un po’. Intanto ho una casa (una stanza, anzi) e un lavoro fresco fresco: viviamo a Mile End, sulla Central Line, a due passi dalla famosa Brick Lane e dal profumo di curry dei ristoranti bangladesi; quando mi affaccio alla finestra, vedo più burqa, veli e abiti colorati che pallide facce british. E non mi dispiace. L’East End è un abbaglio di odori e verdure sui banchi, di facce e piedi che sembrano portarsi dietro la polvere dei deserti, anelli agli indici, sandali, occhi che brillano dalla fessura severa lasciata dalle norme religiose; a Whitechapel, ogni giorno, si monta e si smonta un mercato che ricorda molto quelli visti a Fes, nelle giornate marocchine: un volta qui s’aggirava Jack The Ripper, ora si vendono falafel e patate. Anche le ragioni di gioia, qui, sono piuttosto variegate: la settimana scorsa l’Inghilterra impazziva per William e Kate, ieri la popolazione dell’East End si è riversata in Brick Lane per il capodanno bangladese, e per il mercato di specialità culinarie da tutto il mondo che ogni domenica stuzzica gli stomaci. Mi sono londonizzata, e anche pakistanizzata, bangladesata, arabizzata. Il lavoro, invece, è l’aspetto più divertente: da un paio di giorni faccio la barista da Caffè Nero che, per chi non avesse mai sentito il nome di Caffè Nero, altro non è che una catena inglesissima di caffetterie. Inglesissima, ma il cui motto è portiamo l’italian style dei bar, e facciamo secca la concorrenza. Ci riescono abbastanza, devo dire: il lavoro in sé è anche divertente, salvo il fatto di dover imparare a memoria la preparazione di ventitré bevande diverse e di dover sorridere sempre e comunque, perché “the customer is the king”. Ma tant’è. London is London. Ogni mattina, appena mi sveglio, faccio colazione leggendo Corriere e Repubblica: mastico i cereali, mi mordo le labbra a quasi tutte le notizie; e mi manca l’Italia, certo, ma allo stesso tempo provo una tristezza feroce, una voglia di ritorno che sa più di schiaffo. Porto le parole di Pino Maniaci ancora nella gola. L’immagine di Palermo sotto un assaggio di Scirocco, e l’idea di essere capitata in un luogo solo per questioni di contingenza, come tutti. L’idea della bellezza, e della sfrontatezza. Lodi che affoga in un aprile troppo caldo. Case, persone, una lingua. Sto leggendo Bilal, reportage di Fabrizio Gatti sul viaggio della speranza di migliaia di africani verso l’Italia; storia di trafficanti e Stati corrotti, storia dell’Italia che ci convince di aver prodotto le leggi migliori, la tutela migliore, e invece costerebbe molto meno rilasciare un passaporto in regola, piuttosto che raccogliere cadaveri sui fondali di Lampedusa. Costerebbe meno, a voler parlare solo di soldi. E dalle nostri parti riusciremmo a chiudere gli occhi senza colpa, la notte. A Londra il calderone di Paesi e tradizioni è spina dorsale dell’identità di Londra stessa: mi chiedo, ogni giorno, quando prendo un autobus e sono l’unica europea a bordo, come è stato possibile. Qui vicino a casa c’è una moschea. I bambini escono felici, e poi corrono al parco. Dalle mie parti l’unico felice è sempre il pagliaccio. La gente credo non lo sia più. E chi non ha ancora capito in che situazione siamo, lo comprenderà presto, e a quel punto si sentirà anche immensamente sciocco. Il pagliaccio e gli altri pagliacci, invece, non si sentiranno mai in torto, mai stupidi. Continueranno a sorridere. E io, qui a Londra, preparo hot chocolates ed espressi: evviva l’italian style.