Colazioni di lavoro


Oggi ho dovuto presenziare a una colazione di lavoro. Colazioni, pranzi e drinks di lavoro sono una maniera cortesemente scorretta di farti lavorare anche in spazi che dovrebbero essere di svago e, soprattutto, privati. Alle nove ci siamo ritrovati in una sala riunioni, luci suffuse, colazione pronta per tutti – croissants, fragole e succhi di frutta – e il capo che ordina a tutti i presenti di alzarsi in piedi e … fare riscaldamento. Ordina di saltellare su un piede, poi farlo su un altro, poi sollevare le braccia, e infine fare stretching. Una volta concluso, tutti possiamo sederci e posare gli occhi sull’ennesimo grafico che mostra curve di crescita e decrescita.  Scopo della riunione/colazione: la compagnia è preoccupata di non riuscire a chiudere l’anno finanziario – ormai sul punto di terminare – con numeri sfacciatamente abnormi. Abnormi in realtá lo sono giá, ma – com’è noto – la fame di profitto non si placa fino all’ultimo, sfiancante giorno di cannibalismo.  Quindi ecco l’urlo del capo – via mail –  il giorno precedente: domani colazione di squadra, voglio che ognuno porti almeno un’idea grandiosa per triplicare i numeri in un mese. Non importa se non è realistico – bisogna spingere e spingere, motivare e motivare. E scrivo questo fissando il capo in camicia salmone e voce melliflua, che distribuisce pain au chocolat e snocciola cifre, e penso che guadagna duecentomila sterline l’anno per mentire alla gente e generare profitto, e penso che ha figli a casa che non vede mai, che lavora undici ore al giorno e che ci costringe a fare riscaldamento fisico prima di una riunione. Una riunione che è una colazione. Una colazione nel mio tempo privato, individuale, unico. Lo guardo e vedo un sistema, una mentalitá – denaro, bugie, annullamento dell’identit á del singolo sull’altare della carriera. Lui sorride ed è gentile, mentre le sue bugie piovono, le fragole baluginano sotto le luci bianche della sala, i cartoni dei succhi si svuotano, ed è natura morta, persone morte, e io provo un’infelicitá cosmica.

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Happy Italy in libreria


 

Ormai è questione di una manciata di giorni.

Aspettare


Un’attesa: i sei minuti inaspettati nel tunnel della metropolitana. La panca è sgombra e un topo si lancia da un’estremità all’altra della piattaforma. Mutismo di rotaie, annunci ed esseri umani. La cupola di St Paul era uno sperone abbagliante nella notte, ma ora Londra è questa serpentina di viscere. Aspettare un treno che, insolitamente, ci metterà sei minuti ad arrivare. Compare un corpo pelato, che sbuffa alla lettura del ritardo. Ripassa il topo, adesso con più con calma. Non sto facendo niente. Per un volta, non sto facendo assolutamente niente. Non sto scendendo scale mobili, saltando da un autobus all’altro o fendendo la folla. È inusuale. Tutto, a Londra, è sempre puntuale e incastrato con precisione. Tabelle e programmi. Controllo su tutta la materia che si muove, sui minuti e sulle coincidenze, sulle scarpe in fila lungo le piattaforme e gli orologi digitali delle stazioni. A Londra non si aspetta mai nulla. Tutto arriva quando ci si aspetta che debba arrivare. Ma stanotte l’ingranaggio si è inceppato di sei minuti e il percorso pianificato del londinese medio deve sottostare al tunnel nudo, al conto alla rovescia, al tacco che batte la sua impazienza contro la linea gialla. E lo vedo: il pelato è un morto che cammina, pure stanotte che potrebbe respirare l’aria elettrica della fermata di St Paul e soffermarsi sulla differenza tra cielo e soffitto, pure in questi sei minuti in cui potrebbe sedersi e notare il topo correre e me guardarlo. Ma resta un cadavere capace di stare in piedi, materia pallida nel movimento a incastri. Mi vedi? Sono quella immobile, che con una tristezza feroce ti pensa, e pensa a come scrivere di te e del tuo sollievo morboso davanti ai vaghi fari gialli del treno. No, non mi vedi. E così il prezzo dell’efficienza diventa l’assenza di tempi morti: essenziali, per ricordarsi di essere vivi.