Il lavoro nobilita l’uomo #1: La Fine


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Settembre 2013, Londra

È la mia penultima settimana lavoro nella compagnia che mi è stata famiglia per quasi due anni. Ho lasciato per molte ragioni, la più pratica è che me ne andrò da Londra. È la fine di settembre, la città brulica, tiepida e caotica, ci si prepara all’autunno inglese, fiumi di birra e di pioggia e freschi bastimenti di giovani stranieri, che sbarcano nella penisola britannica in cerca di fortuna, e magari di un po’ di futuro.

La compagnia che sto lasciando è una grande azienda americana, si occupa di un settore nobile producendo profitti voraci – è giovane, dinamica, molto da copertina, vanta numerosi uffici intorno al mondo e grandiosi feste e happy hour per gli impiegati. Loro mi hanno dato delle possibilità che in Italia non avrei mai avuto, non a ventitrè anni e senza esperienza nel settore; loro sono stati la mia famiglia, la mia sicurezza, in un città dove spesso ci si sente estremamente soli. Ho voluto bene a questo lavoro, a quest’azienda. Ma il mondo è complicato e niente è per niente: non ci ho messo molto a capire che cosa volevano in cambio. Me. La mia persona, la mia testa. Volevano i miei sorrisi e che sviluppassi un estremo amore per me stessa: questi, combinati, li avrebbero protetti da disgusto e frustazione quando sarebbero arrivati i primi colleghi licenziati in tronco, i contratti di marzapane (inderminati ma senza tutele), le promesse mancate, le richieste di mentire. Volevano convincermi che ogni realtà lavorativa funziona in quel modo, con la stessa corporate culture feroce e da combattimento, che in fondo è vero, hard work pays off – trascurando un dettaglio: pays off ma non quando entra in conflitto con gli interessi della compagnia.

Quindi eccomi: a una settimana dal congedo, a meno di un mese dalla partenza. È settembre, e qui è il mese delle rivoluzioni: gente che se ne va, gente che viene licenziata, gente che viene assunta. A nessuno viene comunicato nulla fino all’ultimo, le modalità sono sbrigative, alcuni dicono truci: ma sono voci di corridoio, leggende che aleggiano nell’ufficio e non hanno ancora trovato riscontro. Per cui non sono preoccupata. Arriva il lunedì in cui i giochi devono essere decisi e comunicati. In ufficio, i meeting sono cominciati alle otto e trenta e c’è un’atmosfera tesa, circospetta. Io arrivo con la mia brioche e un sorriso da settembre assolato – un po’ naive ogni tanto lo sono, o forse semplicemente non posso concepire che certe cose possono davvero funzionare nel modo in cui, di lì a poco, mi renderò conto che funzionano. Mi siedo e accendo il computer, guardo le teste dei mie colleghi abbassate sulle tastiere, incrocio qualche sguardo preoccupato, il silenzio è una cappa densa e umida e si suda, si aspetta. Il mio capo non c’è. Me ne accorgo quasi subito, la sua sedia, poco distante da me, è vuota. Scorro rapida le email e vedo che, secondo il suo calendario, dovrebbe essere in vacanza. Buon per lui, penso, è settembre ed è una splendida giornata di sole. Comincio a lavorare, azzanno il cornetto e rispondo a qualche messaggio. Passano forse venti minuti, e allora la vedo: la testa bionda del mio capo, D, che spunta dal corridoio, diretto verso il nostro tavolo. Accenno un saluto e torno a lavorare, non gli presto molta attenzione. Lui arriva alla scrivania e dice qualcosa a un mio collega, borbotta ridendo che questa è una giornata fortunata, è rosso in viso – percepisco che c’è qualcosa di strano, nella sua risata, qualcosa di estremo, ma sono abituata alle sue eccentricità e non mi preoccupo. Poi lui dice che se ne sta andando. Se si sta rivolgendo a me, non me ne accorgo – ho gli occhi sulla posta elettronica e comunque non sono stupita, dal suo calendario dovrebbe già essere in ferie. Poi sento di nuovo la sua voce, e stavolta c’è anche il mio nome: Ilaria, my dear, I am leaving. Anche adesso, non so perchè sia così concentrata, non sposto lo sguardo. Dico solo che va bene, enjoy, e passo all’email successiva. E poi succede: me lo trovo accanto, è questione di un pochi secondi, mi passa un braccio attorno alle spalle e mi bacia sulla testa. È come una scossa elettrica: è il mio capo, è inglese – i capi inglesi non toccano nessuno, mai. Sollevo di scatto la testa, turbata, ma lui ha già aggirato la scrivania e si sta incamminando verso l’uscita, la giacca ripiegata su un braccio, un sacchetto di plastica pieno di non so cosa e il passo rapido. Apro la bocca, la sorpresa comincia a tramutarsi in una sensazione più affligente, più dolorosa: qualcosa non va. Cerco con gli occhi i colleghi che siedono di fronte a me, e vedo il volto di J immobile e buio, e poi E che arriva e il suo bel viso sembra un quadro a olio che si scoglie: piange, si torce le mani, mi dice Mi hanno licenziata, hanno licenziato anche lui. Salto in piedi ma è tardi, il mio capo ha già lasciato l’edificio. Mi avvicino a E, le sfioro un braccio, lei neanche mi guarda: tiene gli occhi bassi, raccoglie veloce le sue cose – fogli, agende, bustine di tè, un po’ di cioccolato. Vorrei dirle qualcosa ma l’ufficio è ammutolito e si continua a lavorare, e mi rendo conto che il codice da seguire è ben preciso: chi si ne deve andare se ne vada con discrezione e senza parlare con nessuno, gli altri continuino a lavorare.

Il silenzio grava sugli oggetti che rapidamente svaniscono, i posti che si svuotano.

La bella e triste E scivola via con delicatezza, ingoiando il pianto e senza salutare nessuno. Non ci devono essere scenate. Gliel’hanno comunicato pochi minuti prima: sei fuori, mi dispiace, raccogli le tue cose e non parlare con nessuno, grazie per l’hard work, ti auguro il meglio. Mi risiedo col cuore che mi esplode nella gola, cerco con lo sguardo qualcuno che tremi dalla rabbia come me, ma vengo interrotta: un bip del computer richiama la mia attenzione, è il grande boss, il licenziatore, che vuole parlare con me. Sono perplessa. Vorrà licenziarmi anche se mi sono già licenziata? Mi alzo e mi avvio nella stanza che mi è stata comunicata. Tutte le teste sono basse, nessuno fiata. Il grande boss mi accoglie con un sorriso grave, toccandosi la montatura degli occhiali. Mi dice Siediti, grazie per essere venuta. Poi sospira, congiunge le punte delle dita, accavalla le gambe e comincia: abbiamo dovuto lasciar andare E e D, purtroppo è una questione di budget, abbiamo fatto il possibile. Le sue parole tintinnano come monete in una slot: il rimbombo è sordo, stupido. Lasciar andare, non licenziare: una scelta semantica ben precisa. Lui parla bene, lentamente, sa come si fa. Ma spesso distoglie di occhi dal mio viso. Così trovo la mia missione da cinque minuti: continuare a fissare negli occhi quel bastardo, provare a trasmettergli il mio pietoso disgusto, il mio rancore. Spero che fiammeggino nelle mie pupille, che lo intossichino. Poi il grande boss mi chiede se ho capito, io annuisco, e allora comincia a ringraziarmi per il lavoro che ho svolto, chiede se sono pronta per la partenza e mi augura buona fortuna. Io ringrazio e mi alzo. Lui annuisce e mi chiede di continuare a lavorare come sempre, di mantenere un basso profilo. Me ne vado con calma, voglio metterlo a disagio il più possibile. Dopo di me, il grande boss chiama altri colleghi: vuole spiegare la situazione, rassicurare. Gestisce il suo personale con buona grammatica, sorrisi misurati e voce calma. La parola fire, licenziare, non viene mai menzionata. Il dispiacere della compagnia viene espresso più volte. La litania accorata del grande boss intontisce molti, e rassicura i più: tutti continuano a lavorare, si pranza come sempre, nessuno parla di quello che è accaduto. Come in ogni narrazione di spessore, c’è la guerra dei disperati: il sollievo di chi è stato risparmiato e la necessità di far buon viso a cattivo gioco, perché è finito il tempo dei cavalieri che s’immolavano, ora bisogna pensare all’affitto, alle bollette, alle scuole dei figli. Ad alcuni, dopotutto, non sembra neanche una faccenda così drammatica: la gente viene licenziata ogni giorno, è il mondo del lavoro, sono le regole della competizione. E poi non siamo certo in Cina, è mamma Londra, la civilizzatrice. D, il mio capo, stava per cambiare casa e voleva sposarsi l’anno seguente. Aveva lavorato come un pazzo tutto l’anno, sopportato le pressioni e protetto il suo gruppo; aveva provato a convincermi a restare, dicendo che la compagnia poteva offrirmi molto. Non poteva sapere che l’avrebbero sbattuto fuori di lì a poco.

A fine giornata è sparito tutto: D ed E, e qualcun altro che neanche conosco, e con loro pinzatrici, caffè, cereali, block-notes, sciarpe, aspirine, paracetamolo, dolcificante, tutti gli oggetti che correlavano quegli spazi alle loro esistenze. A fine giornata, è come se da lì non fossero mai passati. Il grande boss ha portato a casa questo lunedì difficile, e la compagnia è pronta per cominciare un nuovo anno di business.

La luce fuori dall’ufficio, a fine giornata, è opaca, sgrana i marciapiedi, e intossica gli occhi.

La gioia piccola d’esser quasi salvi


Ho fatto un colloquio per un lavoro che non fa per me, in un settore che detesto e in un città che non amo. Perché, direte voi? Perché a volte s’imbocca un percorso che non è sbagliato e non è nemmeno giusto – si pensa che sì, questo lavoro lo si può fare per un po’, s’impara e si guadagna, poi si vedrà. Dopo un anno e mezzo di vendite e corporate culture a Londra, sono partita per l’Italia con la convinzione di voler cambiare, di voler tornare a fare quello che amo e che mi realizza davvero – scrivere, insegnare, occuparmi di esseri umani. Però cosa fai quando la tua ex azienda londinese ti procura un colloquio con il suo distaccamento milanese e, quindi, la possibilità concreta di avere un lavoro (e uno stipendio) a pochi giorni dal rientro? La risposta é: dici di sì e vai a fare il colloquio. Per molte ragioni. Lo fai a fare perché hai ventisei anni e non vuoi, dopo quasi tre anni di autonomia totale, tornare a pesare sulla tua famiglia. Lo fai perché non stai tornando nell’efficiente regno di Angela Merkel ma nella nostra Italia scalcinata e ladrona, e non si sputa mai e poi mai su un possibile impiego. Lo fai perché in fondo non c’è nulla di male nel volere semplicemente un lavoro per quello che è – soldi per pagarsi in affitto, mangiare, vivere.

Così un giorno metto in pausa le mie aspirazioni, m’infilo una giacca seriosa, prendo un treno per Milano e, per le undici di un mattino d’ottobre tiepido e appena ventoso, arrivo in un ufficio appena dietro piazza Duomo. Ci arrivo con le migliori intenzioni, pronta a fare qualcosa che ho imparato molto bene: fingere grande entusiasmo e grandi piani di carriera. Mi accoglie un ambiente giovane, dove decine di teste si alzano e si abbassano tra computer e telefoni; il classico open space moderno, dove i colleghi devono condividere tutto, dalle proprie voci ai propri rumori, sguardi, sbadigli. Parlo con quattro persone diverse. Mi fanno tutti le stesse domande. Dove ho lavorato e cosa facevo. Perché vorrei quel posto. Perché sono tornata in Italia. Cosa mi motiva. Rispondo con serietà e dedizione; cerco di sottolineare le mie competenze, la qualità di quello che ho fatto in precedenza – si trattava di ruoli simili, dopotutto. Non dico che, in realtà, detesto le vendite e se potessi scegliere farei la scrittrice a tempo pieno, o la mediatrice culturale. Non sono tenuta a farlo e questo, in ogni caso, non condizionerebbe la qualità delle mie prestazioni professionali. Eppure i colloqui, man mano che procedono, vanno sempre peggio: questa gente non vuole sapere di me, vuole sapere che numeri ho portato alla mia precedente azienda. Non fa niente se non conoscono nulla di come lavoravo e che cosa quei numeri effettivamente significano: vogliono cifre, cifre, le annotano ai bordi del mio curriculum. Mi continuano a ripetere che vogliono gente aggressiva, motivata, affamata, gente disposta a sudare su quei telefoni otto o nove al giorno. Vogliono gente appassionata. Io vorrei chiedere loro: appassionata a cosa, alle vendite? Chi realmente può trovare appagante vendere? Al massimo si trova appagante la competizione interna, l’essere sotto pressione, i bonus in denaro – segni evidenti di qualche disagio, forse, ma ognuno di noi ha bisogno di una ragione per alzarsi da letto. Quindi annuisco e sorrido. Sono pronta a sopportare la pressione? Certo, rispondo. Eppure qualcosa, nei miei occhi, comincia probabilmente a spegnersi. Forse accade quando la terza vamp-manager con cui parlo, scorrendo il mio curriculum, si accorge che ho pubblicato due romanzi, alza i suoi occhi da pesce e mi chiede:

“Te li ha pubblicati un tuo amico?”.

“No, una casa editrice di Roma”.

“Ah. E conoscevi qualcuno lì dentro, vero?”.

“No, me li hanno pubblicati perché gli sono piaciuti”.

“Ah. E perché non vuoi fare la scrittrice e vuoi lavorare in questo settore?”.

Vorrei risponderle che, ahimè, di scrittura quasi mai si vive e che non tutti possono essere mantenuti a vita, ma scelgo la via diplomatica e dico che scrivere necessita di stimoli e io sono una persona eterogenea, dalle varie capacità e che ama mettersi alla prova. La conclusione della donna è che fare la scrittrice è quindi noioso. Infine, dopo un role play di vendita, terminiamo la conversazione ed è il turno di parlare con il direttore generale, una spagnola altissima chiusa in un minuscolo ufficio. Mi fa domande su numeri e motivazione, legge il mio curriculum nell’ordine sbagliato e infine sospira: ha dei dubbi, la gente che di solito si presenta a questi colloqui a quanto pare muore dalla voglia di vendere, vendere, vendere e moltiplicare cifre. Io invece, nell’ordine, sono troppo creativa, pacata e con un’esperienza professionale troppo qualificata. La manager quindi mi fissa negli occhi e mi chiede: ma tu vuoi davvero questo lavoro o vuoi solamente un lavoro? In quell’istante, in me, un ultimo, fievole istinto di sopravvivenza ha la meglio: non me ne accorgo, ma non riesco più a mentire. Provo a dire che sì, voglio davvero lavorare lì, ma non ce la faccio. Annaspo per una via di mezzo che non mi fotta ogni possibilità, ma ho la gola secca e non trovo niente da dire. Ci fissiamo, entrambe consce della piega che ha preso il mio colloquio. Io di vendere non ho nessuna voglia e lei lo ha capito. Io non sono affamata, aggressiva, motivata, io voglio solo un impiego e uno stipendio. Le dico quindi che è vero, ci dovrei pensare, e che le farò sapere.

Esco da quell’ufficio frastornata. Milano è ancora tiepida, ragazzi di Amnesty International cercano di fermare i passanti per una raccolta firme ma tutti li scansano. Respiro e scoppio a piangere. Piango perché ho ventisei anni e ho buttato nel cesso un’opportunità lavorativa. Piango perché mi sento un’irresponsabile, ho deciso di tornare in Italia e mi permetto pure di essere picky. Piango per le stronzate che mi hanno detto e le domande inopportune. Più tardi, qualcuno mi dirà di sorridere, perché invece sono salva: non è più tempo di svendersi, non importa se il Paese è duro e la strada in salita. Almeno tentare per il meglio, si deve. Più tardi, qualcuno mi dirà che forse era arrivato il momento di smettere di infilarsi in lavori alienanti e fingere di essere ciò che non sono. In tutto questo, però, mi pongo delle domande. Perché non posso avere un lavoro solo perché è un lavoro? Perché il mio lavoro dovrebbe essere non solo ciò che faccio, ma anche ciò che sono? Perché devo essere per forza aggressiva e affamata? Perché la pacatezza e la creatività dovrebbero essere d’ostacolo a una brillante carriera? Perché tu, top manager, nel 2013, in quest’Italia che scaccia i suoi giovani a suon di portoni sbattuti in faccia, mi domandi se forse è che voglio solo un lavoro, pur sapendo che sono una di quei giovani che invece in Italia ha appena deciso di tornare e che sì, ho bisogno semplicemente di un maledetto lavoro? Spesso guardo mio padre e lo invidio: lavora da trent’anni nello stesso posto, forse è un impiego che non ha mai amato davvero, ma nessuno ha mai preteso la sua testa e il suo cuore. Un tempo si chiedeva alla gente serietà e dedizione. Se le persone lavoravano soltanto per portarsi a casa uno stipendio a fine mese non c’era nulla di sbagliato. Adesso invece noi dobbiamo per forza amare ciò che ci dà da vivere. Dobbiamo esservi devoti, esso dev’essere la nostra priorità. E se appena traspare una mancanza di totale identificazione col nostro impiego, siamo fuori, siamo un problema. Per certe figure professionali, come i medici o gli insegnanti, è un meccanismo che posso anche condividere. Ma vendere corsi di lingua al telefono? Convincere la gente a sborsare duemila euro per due settimane a Dublino? Non penso sia lo stesso. Eppure questo pretendono: il nostro spirito e la nostra fame, e che non ci sia altro di così appagante nelle nostre vite. Mi dispiace per loro, e mi dispiace per noi. Mi chiedo quando sia accaduto, quando lo hanno permesso, quando hanno stabilito che dobbiamo essere i lavori che facciamo. È anche stupido: sembra assurdo, ma anche se odio vendere sono molto brava a farlo. E forse perché non sono aggressiva, perché, nella mia pacatezza, ascolto. E forse perché sono creativa. Ma loro non l’hanno voluto vedere: l’azienda ha perso un’ottima potenziale venditrice, io ho scampato una scelta sbagliata e alienante.

Quando ho ripreso il treno per tornare a casa, ero spaventata: l’inebriante gamma di possibilità di una persona libera è anche il suo peggiore incubo, e quest’Italia non è generosa. Però i campi scorrevano lungo la ferrovia, l’aria era dolciastra e io avevo tra le mani un buon libro. Come scrisse Amelia Rosselli: era la gioia piccola d’esser quasi salvi.

Libertà dal lavoro

Rehab all’Italiana


vecchi-panteschi

Elogio della vita di provincia: scrivo da un tavolo su cui ho giocato, disegnato e studiato per circa ventitrè anni, ed è una pigra giornata di fine Agosto, fa ancora caldo e le zanzare non danno tregua. Londra non mi è mai sembrata così lontana e francamente così poco allettante. Credo che si chiami sindrome da metropoli, oppure è solo una questione di anni che passano e bisogni che cambiano. Dodici milioni di abitanti contro cinquantamila anime: negozi aperti dodici ore al giorno, fiumi di persone sempre di corsa e traffico esasperante contro le piccole librerie che fanno ancora la pausa pranzo, esseri umani che camminano guardandosi intorno e strade a volte deserte. Il confronto è quasi stordente. Mi piace quest’aria ferma, questi ritmi sonnolenti: mi piace guardare i vecchi appollaiati agli angoli delle strade con le loro sedie di plastica, impegnati nel loro sport preferito – l’Osservazione del Passante. Mi piace il barista che non si precipita a servirti se sta facendo qualcos’altro e la fila al supermercato perchè c’è una sola cassa aperta. Mi piace il sole di pianura sulle biciclette, i gelati serali, la piazza vuota delle due del pomeriggio e le trattorie nascoste dietro i cascinali, dove si serve selvaggina e lentezza. A volte mi chiedo quale sia la vera felicità: non fermarsi mai, come se non ci fosse un domani, oppure lasciare che l’oggi non sia troppo affollato o rumoroso. L’Italia è proprio bella, gente: c’è molto da cancellare e da cambiare, ma la vita, qui, ha sapore – e non quello delle verdure di plastica dei supermercati inglesi.

Vorrei che anche coloro che non hanno mai dovuto lasciare l’Italia imparassero ad averne nostalgia: forse ne avrebbero più cura.