Rehab all’Italiana


vecchi-panteschi

Elogio della vita di provincia: scrivo da un tavolo su cui ho giocato, disegnato e studiato per circa ventitrè anni, ed è una pigra giornata di fine Agosto, fa ancora caldo e le zanzare non danno tregua. Londra non mi è mai sembrata così lontana e francamente così poco allettante. Credo che si chiami sindrome da metropoli, oppure è solo una questione di anni che passano e bisogni che cambiano. Dodici milioni di abitanti contro cinquantamila anime: negozi aperti dodici ore al giorno, fiumi di persone sempre di corsa e traffico esasperante contro le piccole librerie che fanno ancora la pausa pranzo, esseri umani che camminano guardandosi intorno e strade a volte deserte. Il confronto è quasi stordente. Mi piace quest’aria ferma, questi ritmi sonnolenti: mi piace guardare i vecchi appollaiati agli angoli delle strade con le loro sedie di plastica, impegnati nel loro sport preferito – l’Osservazione del Passante. Mi piace il barista che non si precipita a servirti se sta facendo qualcos’altro e la fila al supermercato perchè c’è una sola cassa aperta. Mi piace il sole di pianura sulle biciclette, i gelati serali, la piazza vuota delle due del pomeriggio e le trattorie nascoste dietro i cascinali, dove si serve selvaggina e lentezza. A volte mi chiedo quale sia la vera felicità: non fermarsi mai, come se non ci fosse un domani, oppure lasciare che l’oggi non sia troppo affollato o rumoroso. L’Italia è proprio bella, gente: c’è molto da cancellare e da cambiare, ma la vita, qui, ha sapore – e non quello delle verdure di plastica dei supermercati inglesi.

Vorrei che anche coloro che non hanno mai dovuto lasciare l’Italia imparassero ad averne nostalgia: forse ne avrebbero più cura.

Materie Lunari


La vita di emigrata è affollata di alti e bassi. Lo penso ed è una sera di vera estate, la prima, forse, qui a Londra – un’aria spessa e tiepida che sa di casa e pianura, di zanzare e fuochi d’artificio. Ma non è casa, e a ricordarmelo ci sono le immagini che la mia finestra svolge appena sollevo lo sguardo: palazzi mattone, il cielo plumbeo che anticipa l’ora blu, il campo da basket dove spilungoni neri e sottili rollano sigarette e ridono. Parsons Green, piccolo polmone a sud ovest di Londra, giusto dopo Chelsea e i suoi abitanti incelofanati e perfetti; un quartiere di gente tranquilla, che porta a casa la giornata per affolare i pub e ammazzarsi di birra, ragazze con le unghie blu e cani senza guinzaglio. A Londra, è forse uno dei borough più vivibili, un sollievo agli occhi stanchi di una ragazza di provincia che credeva di essere fatta per la metropoli e si ritrova a bramare la piazza della sua Lodi la domenica mattina. La scoperta di se stessi e di ciò che non vogliamo è forse il bagaglio più pesante da riportare a casa, se mai un giorno un ritorno sarà possibile. Gli emigrati lo sanno – soprattutto quando sono giovani e non vengono da un Paese in guerra civile e sì, non gliel’ha certo prescritto il dottore, di fare le valigie e andarsene, ma in fondo cosa c’era da fare? Che cosa potevamo inventarci per far valere le nostre passioni e la nostra preparazione? Quando non si emigra per disperazione ma per sentore di sfacelo, non è concesso lamentarsi: potevi restare e provarci di più, potevi accontentarti. Forse sì. Ma la faccenda è più complicata: le radici si fanno scomode e, per curiosità e fame di orizzonti, decidiamo di andarcene. Si diventa adulti nel giro di due giorni, perchè manca tutto: i soldi, una casa, gli amici, la mamma, la lingua – qui da dove scrivo, in aggiunta, manca il sole, il prosciutto, un mare dove nuotare e verdure non plasticate. Arriviamo e ci proviamo. E tutto, lentamente, assume i contorni di una quotidianità e di una vita che, finalmente, si ha l’opportunità di costruirsi da sè.

Non male, per noi giovani italiani: un soffio di scirocco in terre gelide, e nei brevi rientri tra le strade di casa sei orgogliosa, vorresti raccontare a tutti perchè sei diversa e come il tuo passo è cambiato. Ci sono i lavori che hai trovato e perso, le topaie in cui hai dovuto vivere, i pazzi che hai incontrato e che sono stati tuoi conquilini; la fretta, il caos, la grammatica, gli ubriachi molesti, chi ti ha aiutato, truffato, derubato, le cose che hai comprato e gettato via, i viaggi in aereo, metropolitana, autobus, bicicletta. Quello che ami di questa vita e ciò che ti fa sanguinare le mani ogni volta che, come un vetro che s’incrina, ti accorgi di andare avanti con due piedi in due Paesi. Gli alti e bassi da emigrata: arrivare, dopo due anni, a volere un ritorno, e rendersi conto che forse sarà più difficile di quanto è stato andarsene, perchè l’Italia è una terra che ti vorrebbe indietro ma non sa dove metterti. E tu la ami di nostalgie e rancori, ogni giorno.

In ogni caso, stasera, è tempo di alti: la giornata è passata in uno dei parchi più belli di Londra, Richmond, dove mandrie di cervi solcani i prati, il vento è pacifico e la città si dissolve in lontananza, come uno sbuffo di materia lunare. Bellezza e basta, e ci si sente molto meglio.

nostalgia

Il prezzo di mercato delle nostre vite


Alle quattro e quarantatrè, sull’autobus da Islington a Oxford Circus, ci sono solo i morti. Morti che cominciano a lavorare quando la notte è ancora sanguigna e tossica, e il freddo trapassa il corpo: sono giamaicani, indiani, magrebini, cubani, italiani, polacchi, somali, facce che si trascinano per inerzia, a fronteggiare un’altra alba londinese di lavoro. Self-made men and women cui la grande fabbrica di sogni inglese ha riservato un’entrata di servizio, ma con una pacca sulle spalle e un sussurro d’incoraggiamento, Ecco, benvenuti, eccovi un posto in questa grande società, una collocazione, un insurance number, lavorerete come spazzini, lavavetri, magazzinieri, baristi, donne delle pulizie, distributori di giornali alle entrate delle metropolitane. Alle quattro e quarantatrè, quando mi aggiungo al popolo dell’autobus Islington-Oxford Circus, i morti ondeggiano a ogni curva, occhi pesti di sonno e cappucci calati sul viso, gonne a fiori e strozzi di tosse, mani callose intorno a borse di Primark: le età variano, ma è tutta gente umile, gente che a Londra è di servizio ai Londinesi, quella che nei film non si vede mai, perchè vive nelle case popolari in zona quattro/cinque e Notting Hill l’ha vista solo sulle calamite per turisti. Vanno a ramazzare e a scaricare scatoloni, si portano la stanchezza aggrappata alle ossa: si alzano alle tre del mattino per seicento sterline al mese e il loro futuro è il pavimento di una Tesco Express, ma il lavoro nobilita l’uomo, hanno detto. Io salgo e il loro silenzio sfinito è il sipario di questa notte che si accinge a finire:  l’autobus sobbalza e scivola e le loro spalle si urtano, gli zaini cocciano. Una ragazza di colore ha la fronte piena di brufoli e un paio di cuffie sulle orecchie: tiene tra le mani quello che sembra un cellulare, o forse uno smartphone, o forse no. forse è un Iphone. Osservo meglio e sì, è un’Iphone. Lei sta guardando un film: le immagini sono ombre granulose, ma io sono lontana, lei invece le vede bene e tiene lo sguardo fisso sullo schermo. Mi chiedo che lavoro fa. Tra le gambe stringe un borsone viola. Ha occhi piccoli e attenti, e la smorfia prosciugata di chi fa un lavoro troppo duro a orari troppo duri. Però tiene tra le mani un’Iphone dai seicento sterline. Che equivarrà più o meno al suo stipendio mensile, visto che sono le quattro e quarantatrè del mattino e lei è sull’autobus Islington-Oxoford Circus. Odore tossico di notte; è la Londra degli spazzini e dei lavavetri con l’Iphone, perchè è questo, l’affare più lucroso del sistema in cui vivono: far credere loro che lavare pavimenti per comprare un cellulare che vale lo stipendio di un mese sia una realizzazione, un’integrazione, una partecipazione civile. L’affare più grosso del sistema: dare un prezzo di mercato alle loro vite.